IRAP

Irap per lavoratori autonomi e piccoli imprenditori

11/18/2016
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Lo scopo di questo articolo è analizzare l’imposta regionale sulle attività produttive in relazione a due figure: quella del lavoratore autonomo e quella del “piccolo” imprenditore. I motivi che portano questo lavoro a studiare l’IRAP limitatamente a queste due categorie di soggetti, sono da ricercarsi nello stesso decreto legislativo istitutivo dell’IRAP (d.lgs. n. 446/1997); l’articolo 2 di tale decreto individua il presupposto impositivo nell’esercizio di un’attività diretta alla produzione e allo scambio di beni e servizi che sia “autonomamente organizzata”.
Il problema è che tuttora non è presente all’interno dell’ordinamento una definizione di tale requisito e non sembra che il nostro legislatore voglia porre rimedio. Tale assenza ha causato forti incertezze e non ha permesso di delineare in modo preciso e sicuro un confine con cui dividere coloro soggetti o meno all’imposta regionale. I protagonisti di questa “disavventura” sono proprio i “piccoli” imprenditori e i lavoratori autonomi visto che, ancora oggi, non è ben chiaro quando l’autonoma organizzazione (e quindi l’assoggettamento al tributo) sia presente o meno nello svolgimento della loro attività.

 

Lo scopo, che questo lavoro si propone di risolvere, è proprio quello di indicare tutte quelle condizioni al sussistere delle quali si configura, nell’attività del contribuente, un’autonomia organizzativa.
Per fare ciò è necessario soffermarsi su un altro elemento essenziale ai fine del calcolo del tributo, ovvero il valore aggiunto della produzione. Il principio generale della legge prevede che la base imponibile sia costituita dal valore aggiunto della produzione, ottenuto mediante differenza tra il valore della produzione (sezione A del conto economico) e i costi della produzione (sezione B del conto economico), ad esclusione però del costo del lavoro; non rilevano quindi le componenti positive e negative della gestione finanziaria e di quella straordinaria. Si tratta di una grandezza economica peculiare, non confondibile con la nozione di reddito, propria invece delle imposte sui redditi. Per comprendere fino in fondo il concetto di valore aggiunto, è importante inquadrare l’IRAP: è un imposta REALE: deve essere concepita come un’imposta sul business, ovvero una sorta di imposta sulle imprese. Il suo fondamento risiederebbe nel fatto che nell’impresa è presente un’organizzazione complessa, dotata di una sua unità organica, alla quale va riconosciuta una capacità contributiva reale, impersonale, basata sulla combinazione di uomini, macchine, materiale, conoscenze tecniche e imprenditoriali. Un’organizzazione autonoma quindi, che garantisce al titolare dell’attività il raggiungimento di redditi elevati. In questa particolare configurazione del presupposto si può cogliere uno dei tratti di maggiore innovazione giuridica, ma conseguentemente il profilo che ha generato uno dei maggiori dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla natura giuridica dell’imposta. Secondo tale impostazione, l’onere contributivo non si riferisce al reddito, ma al valore aggiunto, per cui è possibile che l’IRAP possa andare a colpire imprese in perdita d’esercizio: la violazione del principio di capacità contributiva risulta abbastanza evidente secondo parte della dottrina venendosi a tassare ricchezza inesistente. Sul punto è intervenuta la stessa Corte Costituzionale dichiarando definitivamente legittima l’imposta regionale sulle attività produttive, sostenendo che l’IRAP colpisce con carattere di realità un fatto economico diverso dal reddito, ma comunque espressivo di capacità contributiva. Scansato ogni dubbio relativo alla sua legittimità costituzionale non è chiaro come mai l’imposta sia indeducibile (parzialmente per una quota del 90%) dall’imposte sui redditi, rappresenta un onere per il quale non è ammessa rivalsa, per cui sarebbe totalmente deducibile secondo l’art.99 del TUIR. La Consulta anche in questo caso ha dichiarato inammissibili le questioni di illegittimità, ma non è comprensibile come mai gli oneri finanziari e i costi del personale sia indeducibili ai fini del calcolo della base imponibile. Infatti nonostante il fatto che i finanziatori e i lavoratori possano partecipare al processo di creazione di valore aggiunto, l’unico chiamato al versamento dell’imposta sia il titolare dell’attività. La stessa Corte Costituzionale con la sentenza 156/2001, ha ammesso la possibilità di traslare l’onere impositivo nei confronti di altri soggetti, trasferendo sul prezzo del bene o del servizio offerto il costo impositivo sostenuto in precedenza. L’IRAP sotto questo aspetto potrebbe tramutarsi così come un imposta sui consumi, sovrapponendosi all’IVA.  La Corte di Giustizia dell’Unione europea interpellata dalla Commissione trib. Prov. di Cremona su rinvio pregiudiziale, ha comunque dichiarato conforme l’IRAP con l’ordinamento comunitario, che in base all’articolo 33 della sesta direttiva in tema di armonizzazione non prevede la possibilità di introdurre a livello nazionale  imposte simili a quella sul valore aggiunto.
L’accusa mossa dagli Avvocati Generali era volta al fatto che sia l’IVA che l’IRAP colpivano quella che era il valore aggiunto e l’unica cosa che cambiava erano le modalità di calcolo del tributo. L’avvocatura di stato italiana invece osservava proprio come
Tale concetto è imprescindibilmente legato a quello di autonoma organizzazione: in numerose sentenze della Suprema Corte viene più volte giustificato il prelievo impositivo IRAP in virtù del fatto che la struttura autonomamente organizzata del contribuente ha permesso a quest’ultimo, nello svolgimento della sua attività (sia professionale  che imprenditoriale), il raggiungimento di redditi elevati. Per la dottrina dominante l’autonoma organizzazione non è requisito integrato della mera quantità degli elementi organizzati ma della qualità degli stessi in relazione alla specifica attività considerata. L’organizzazione risulta autonoma non perché quantitativamente importante, ma perché in grado di spersonalizzare l’attività svolta e dunque di generare ricchezza (nella specie “valore aggiunto prodotto”) senza che l’apporto dell’organizzatore sia determinante. L’obiettivo ora è volto a determinare quando l’autonoma organizzazione sia presente o meno nell’attività del lavoratore autonomo e del piccolo imprenditore. Per fare ciò come punto di partenza partiamo dalla ormai citata sentenza 156/2001, con la quale la Consulta ha stabilito che ai fini impositivi la presenza dell’elemento organizzativo è connaturata alla stessa nozione di impresa, delimitando alla sola attività di lavoro autonomo la non applicabilità del tributo qualora non sussistano quegli elementi necessari per delinearne un autonoma organizzazione. A seguito dell’emanazione della sentenza della Consulta si è rafforzata la tesi di quanti sostenevano la possibilità di escludere dall’applicazione dell’IRAP quei numerosi professionisti che svolgono una attività priva del requisito dell’autonoma organizzazione perché ad esempio privi di organizzazione di capitali o di lavoro altrui. Con la risoluzione n.32/E del 31 gennaio 2002, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta in merito a tale questione, sostenendo che l’esistenza di autonoma organizzazione è connotazione tipica del lavoro autonomo, alla quale viene spesso fatto riferimento per differenziare tale attività dal lavoro dipendente. In tal senso l’uniche attività professionali svolte in assenza di autonoma organizzazione sono quelle rese dai collaboratori coordinati e continuativi e dall’attività rese in via occasionale. La giurisprudenza fin da subito non ha condiviso queste posizioni e si è spinta anche verso posizioni completamente opposte, ritenendo sempre escluso il professionista che svolga un’attività protetta, per il cui esercizio è stato necessario un esame di abilitazione (l’attività senza il suo apporto non potrebbe utilmente svolgersi).

 

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